L’uscita della nuova app Periscope ha portato ancora avanti il livello di percezione del mondo che noi viviamo.
Sempre più immersi in un brodo di news, cerchiamo di dare la nostra ricetta per carpirne il segreto ma spesso aggiungiamo ingredienti che non servono se non a renderlo di sapore più indistinguibile.
Produciamo contenuti di qualunque tipo, affannati nella corsa al riconoscimento sociale, per poter essere presenti in questa festa globale dove il vestito sono le coreografie digitali di cui ci agghindiamo facendoci spesso apparire per quello che in realtà non siamo.
Ogni momento della nostra vita diventa attimo importante da catalogare, fermare e condividere a futura memoria.
La paura di far scorrere attimi che poi inevitabilmente andranno perduti ci pone nella convinzione di dover conservare tutto portandoci all’estremo che spesso ormai si deforma la realtà per farne set da condividere.
Talvolta viviamo sceneggiature di una fiction poco incisiva cristallizzando spesso solo impalpabili banalità.
La nostra vita, poi, interessa davvero agli altri?
La deriva che stanno prendendo i social network (rete di relazioni sociali su cui si sta sempre più appoggiando la nostra esistenza) è quella di strumento in cui proporre contenuti e talvolta apprezzare distrattamente quello degli altri.
Presi dalla sensazione di non aver tempo tralasciamo l’approfondimento e mangiamo snack news spesso superficiali e anche distorte, condividiamo contenuti leggeri o aderiamo ai mille banchetti like su campagne di sensibilizzazione di cui ci interessa poco.
La nostra vita diventa sempre più terminale di un mainstream umanità che aggrega contenuti disordinati e senza un senso generale, in una evoluzione di strumenti ma non di umanità.
Cataloghiamo il mondo, lo mappiamo fino al livello delle storie e delle emozioni senza avere ben compreso il senso di quello che stiamo facendo. Collezioniamo attimi della nostra esistenza in scatole che non riapriremo mai e che a pochi interessa aprire.
Eterni adolescenti in giro per locali a conversare con il mondo per passare una bella serata. Creare la nostra vita per condividerla però è il modo peggiore per viverla.
La rete è potente (come strumento di relazione per interconnettere la nostra esistenza insieme al resto del mondo) se i contenuti digitali diventano atti tangibili con ricadute nella qualità della vita generale e materiale.
L’evoluzione della specie passa attraverso percorsi di pensiero (che il digitale amplifica a dismisura) che devono diventare scelte e strategie per il futuro del pianeta.
La sensazione è quella di essere ancora nella prima fase di discussione con scarse ripercussioni sulle scelte tangibili da cui dipende la nostra esistenza.
Sembriamo determinanti nell’esprimere la nostra vita e le nostre idee di futuro ma siamo solo un minestrone universale che continuiamo a girare nell’attesa che sia pronto.
La vera sfida è trovare il modo di canalizzare le tematiche per portarle ad una coscienza di sviluppo transnazionale e di visione che diventi politica efficace per costringere l’umanità ad essere determinante per le proprie scelte.
Essere parti del processore del mainframe e non miliardi di sterili e irrilevanti memorie RAM.
Vivere la nostra vita anche raccontandola ma con la prospettiva dello sviluppo umano che non può essere solo un bel racconto.
Fare la storia raccontando insieme la propria personale storia.