La notizia dell’uso distorto dei dati di Facebook che hanno condizionato circa 50 milioni di voti  nelle ultime elezioni americane portano all’attenzione per l’ennesima volta quanto i social network e soprattutto i più rilevanti (Facebook e Twitter) impattino sulla nostra vita e sulla nostra percezione della realtà che ci circonda.

Una realtà deformata dalle informazioni filtrate dai nostri contatti, moderni redattori del nostro palinsesto quotidiano, che condizionano in maniera determinante ciò che dovrebbe essere la realtà in cui viviamo.

Se poi i dati vengono utilizzati per sapere ciò che pensiamo, deducendolo da comportamenti e dalle analisi delle parole scritte, siamo nudi e inermi di fronte a chi ci vuole condizionare per venderci un libro o per suggerirci le azioni politiche, sociali, personali.

La grande responsabilità delle piattaforme social che trovano rimedi tardivi quando i dati sono scappati dal recinto rendono ancora più grande il senso di pericolo e angoscia con il quale dobbiamo convivere.

Siamo passati da una realtà arricchita di elementi multimediali e aumentata dal virtuale a una deformata e di fatto diminuita dai limiti dei social, della profilazione ossessiva dei dati che generosamente doniamo in un modello di business delle piattaforme social che punta quasi solo esclusivamente sulla vendita dei dati.

La vera domanda è: quanto fidarsi dei dati regalati alle piattaforme e ai soggetti terzi che vendono servizi sugli stessi social?

Quanto fidarsi di come, quando e quanto quei dati possono essere venduti o semplicemente utilizzati per condizionare le scelte del nostro futuro?

Quanto siamo coscienti di vivere in una realtà limitata al diorama creato artificialmente dalle piattaforme per farci apparire liberi e felici quando siamo invece imbalsamati in una sintetica realtà?

Molto poco, io credo. Perché viviamo l’apparente sensazione di essere liberi di esprimere le nostre idee mentre nei fatti siamo ostaggi di regole non scelte, di un costante, ossessivo e scientifico modello di business che raccoglie, cataloga, analizza, struttura e canalizza i nostri dati per alimentare sponsor palesi e occulti, per poterci vendere al miglior offerente come fossimo alla tratta degli schiavi digitali.

Possiamo smettere, certo. Quando vogliamo, certo.

Ma mi chiedo se siamo giunti a un momento di non ritorno,

al momento in cui i social siano diventati una sorta di diritto di esistere in uno stato digitale globale.

Siamo forse arrivati al punto in cui in qualche maniera siamo obbligati a essere dentro i social, perché ormai stanno diventando parte integrante della nostra esistenza sempre più connessa e permeata dai processi digitali.

Esserne fuori ci pone sempre più fuori da tanti processi sociali, economici, lavorativi che diventano complicati da sostenere senza queste propaggini social.

Ecco perché ragionare sul nostro futuro di realtà aumentata ma di libertà diminuita è urgente e vitale.

Perché continuando con questa inerzia il mondo sarà di quel signore che può decidere cosa sia giusto o sbagliato che accada all’interno dei suoi maledetti algoritmi.

insopportabile

Ne ho le scatole piene, ma con eleganza.

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