Come ogni estate, puntuale come il Ferragosto, arrivano gli articoli dei turisti speciali (giornalisti, politici, personaggi vari) che indicano con chiarezza come dovremmo fare turismo.
Di solito ci suggeriscono di puntare sulla nostra identità, sul nostro essere gente speciale, sul paradiso in cui viviamo, sul come Rimini sia un esempio che dovremmo copiare, sulle Baleari che loro sì che sanno come far arrivare i turisti, sul come “la Costa Smeralda non è la Sardegna“, sul come qualche albergo in più bisognerebbe costruirlo, sul “porceddu” e “la” seadas e via discorrendo tra un’amenità, una baggianata e un luogo comune.
Per tradizione i sardi si dispongono in due schieramenti: quelli che “hanno ragione e citano “pocos, locos y mal unidos” per dare la colpa agli altri” e l’altra metà che “non ci facciamo dire cosa dobbiamo fare da chi arriva in vacanza e non conosce nulla della nostra storia millenaria”.
La verità sta nel mezzo, dicono.
Invece la verità è palese, sotto gli occhi di tutti, talmente evidente che si fa finta di non vederla.
Non siamo pronti per essere una isola turistica, anzi forse non lo vogliamo proprio.
Viviamo in un posto speciale e questo è il nostro limite, indecisi tra il renderlo prodotto e magari snaturarlo o goderne nella semi solitudine della semi povertà sociale. Non abbiamo paura di diventare Rimini o le Baleari ma di diventare qualcosa che ci tolga la nostra privilegiata identità.
E in questa indecisione costante, in questa binaria volontà di cambiamento o tradizione la scelta è quasi sempre di aspettare e subire gli eventi.
Non siamo pronti perché in fondo, forse per mancanza di visione, non crediamo davvero che con il turismo si possa vivere, perché il turismo è visto come lo sfruttamento retribuito di risorse naturali con ricadute minime e tante scorie. Forse è il trauma dell’illusione dell’industrializzazione fallita, forse è solo diffidenza, spero non miopia.
Rimane il fatto che la percezione del turismo non è invece di un’attività economica trasversale a tutti i settori economici e di conoscenza, un processo sociale più che economico, dove l’identità è il vero pregiato prodotto.
Voler fare turismo presuppone quindi la volontà di scegliere un modello che non la snaturi ma anzi crei le condizioni per rinnovarla senza renderla un fossile.
Presuppone lavorare insieme, tra vari settori come in un meccanismo che funziona solo se tutte le parti sono oliate.
Presuppone competenze, perché l’improvvisazione crea danni semi permanenti in un’epoca di recensioni immediate e durature.
Ma la tendenza è quasi sempre di dare la colpa a qualcun altro: i trasporti, la politica, la scarsa propensione a lavorare insieme.
Problemi che esistono davvero ma spesso rimangono tali perché davvero in pochi vogliono provare a risolverli per creare un nuovo modello.
Un turista vuole esperienze, le ha sempre volute al di là della moda della definizione contemporanea. Però oggi è un turista evoluto, che si informa principalmente sui social, che programma il viaggio dai consigli della cerchia delle sue conoscenze, che vuole vivere la sua vacanza per creare ricordi indimenticabili da condividere con gli amici durante e dopo la stessa.
E l’informazione presuppone elementi pregiati da raccontare, cibo, luoghi, cultura, ambiente, attività, rapporti umani che devono essere onesti e adeguati per essere motore di quelle esperienze.
Eppure ancora oggi in Sardegna si ha difficoltà a conoscere cosa sta accadendo intorno, cosa c’è di rilevante da vedere e vivere.
Sinergia, fare rete, fare sistema diventano parole vuote buone solo per i convegni del turismo dove si discute da anni di modelli tra pochi addetti ai lavori che scuotendo la testa immaginano ognuno il proprio denigrando gli altri.
Manca la cultura turistica, manca l’umiltà di sperimentare e di collaborare.
Eppure ci siamo quasi, manca quel piccolo passo per crederci, insieme. Manca la volontà di mettere in collegamento le risorse eccellenti, tangibili e intangibili, per essere davvero una realtà economica e felice, per poter innovare i processi economici senza dover sempre dipendere dallo stato o dai salvatori stranieri, per poter costruire un futuro che non sia ciò che ci capita ma ciò che decidiamo sia. Perché il contesto internazionale ci ha dato una grande mano ma non sarà così per lungo tempo e se non puntiamo decisamente a un nuovo e organizzato modello siamo destinati all’irrilevanza.
Me lo auguro, ce lo auguro di cuore.
Perché non capiti più, come oggi, che quando ascolti le interviste dei turisti soloni ti chiedi se, al di là della banalità, in fondo, non abbiamo davvero ragione loro.
E che in fondo, forse, desideriamo davvero che facciano i turisti a casa loro.