Stiamo vivendo un periodo di bulimia turistica di esperienze da certificare come trofei digitali, esperienze senz’anima se non quella di significare credito sociale più che appagamento.
I luoghi diventano quindi set di rappresentazione artificiale per turisti da supermarket, abituati a comprare un prodotto scegliendo a scaffale, senza guardare ingredienti e filiera ma solo per suggestioni di marketing, più per consumismo che per scelta consapevole.
E in tutto questo il mercato asseconda le richieste, monetizzando al massimo e senza pensare troppo al futuro.
Uscire da questa logica perversa e biecamente economica è diventata una necessità per vari motivi ma il più importante è il fatto che il turismo solitamente anticipa modelli sociali e economici prima di molte altre attività.
I tempi non sono più adatti a modelli consumistici puri dove il fatturato guida e deroga qualunque strategia.
Oggi se rimane un diritto viaggiare e conoscere non può esserlo farlo in modo irresponsabile e con quelle comodità, servizi e esperienze che ci sentiamo in diritto di avere.
Una spiaggia, una piazza, una montagna è di tutti ma non può essere venduta a tutti perché non è appunto sostenibile.
E non è solo una questione di limitare i flussi o far pagare ancora di più gli ingressi ma di trovare un equilibrio soprattutto nello scegliere una esperienza per sete e necessità di conoscenza e non perché popolare e gratificante dal punto di vista social e sociale.
Siamo ancora e purtroppo solo prodotti, lavoriamo per diventare davvero esperienze, lavoriamo per far capire ai turisti che cosa realmente desiderano.