Ho scritto un post sul costo dei panettoni artigianali che con una battuta prendeva in giro il loro costo paragonandoli a gioielli ma vorrei però spiegare meglio il concetto, al di là della battuta (forse non felicissima, ammetto).
Il cibo di qualità costa, la fatica per arrivare a certa qualità costa, la competenza e la reputazione costa.
Per questo il cibo spesso ha dei costi alti: questa serie di componenti del percorso di creazione del prodotto (e del servizio) non possono che far nascere un prezzo adeguato.
Perché però comporta tanto fastidio questo? Perché un panettone da 35 Euro irrita così tanto?
Perché da consumatori siamo convinti di avere tutti gli elementi per poter valutare il prezzo eccessivo e spesso la colpa non è solo la nostra.
Nel marketing (non nell’accezione negativa ormai percepita ma come scienza economica) il concetto di valore aggiunto è semplice: se io tra due prodotti apparentemente simili non percepisco il valore aggiunto comprerò quello che risponde al mio bisogno per fattori di percezione, tipicamente quello che che costa meno.
Se io consumatore non capisco il perché un panettone da 35 euro sia da preferire a uno da 5, comprerò quello da 5 “perché sembra uguale“, semplificando.
Ecco che quindi l’importanza della comunicazione non solo è strategica ma determinante per far capire questo valore aggiunto che è somma di fattori che giustificano (spesso anche troppo poco) il reale valore del prodotto.
Certo, ci sono altre questioni come la moda, come la ricerca del prodotto esclusivo su mercati più gratificanti dal punto di vista economico ma non può essere ridotto tutto questa banalizzazione.
Viviamo tempi dove il cibo è una trama alimentare in una esperienza di gratificazione emotiva più che di sostentamento.
E in questa corsa alla ricerca dell’ingrediente e della preparazione che attiri l’attenzione il circo del cibo alimentato spesso da pagliacci social diventa più uno spettacolo che una cosa tremendamente seria per il corpo e per lo spirito.
Per spiegarmi ancora meglio vi racconto della settimana scorsa quando sono stato a Pbread Natural Bakery a Cagliari, in un evento di Italea riguardo il programma di promozione del turismo delle radici, evento legato ai panificati e al vino, raccontato in maniera appassionata e competente dall’amica Alessandra Guigoni.
PBread è un progetto nato da un collega ingegnere (Stefano Pibi) che a un certo punto abbandona un lavoro importante e sicuro nelle telecomunicazioni per dedicarsi alla sua passione: cucina e in particolare prodotti lievitati e nel 2017 apre il suo sogno, la sua Natural Bakery.
Stefano ha studiato, ha sperimentato, ha cercato prodotti, tecniche, produttori e passato anni a capire come trovare la sua strada, le sue materie prime e i suoi prodotti per rendere valore alla sua passione.
Ecco, far parte della filiera del cibo non è solo sfamare esseri umani, è diventare attori di una storia evolutiva nel quale il cibo è ciò che ci ha unito, fatto crescere e diventare con le contaminazioni ciò che siamo oggi.
Perché sono importanti persone come Stefano e Alessandra, come i tanti produttori, allevatori, pescatori, vignaioli, ristoratori e così via? Perché senza la loro attenzione e cura si perderebbe quella attenzione a ciò che siamo stati in funzione di ciò che vogliamo essere e soprattutto di ciò che immaginiamo di essere.
Servono (come il pane) persone che innovino, che guardino lontano dove nessuno ha mai guardato e dove altrimenti nessuno guarderebbe.
Prendiamo il pane in Sardegna, ad esempio: esistono circa 800 (ottocento) pani diversi con ingredienti, tipologie, lavorazioni e soprattutto storie che stiamo perdendo. Ma sul passato per fortuna esistono tanti progetti che costruiscono futuro studiando, sperimentando, innovando.
Prendiamo anche l’ultimo libro di Giovanni Fancello (Grazia Deledda e il cibo) dove si trova una modernità nella cucina sarda di fine ‘800 e anteguerra che oggi è chiaramente diversa ma si nutre di quelle radici, di quella storia, di quel senso che il cibo ha sempre rappresentato.
O il racconto che fa Jessica Cani nel suo modo di cercare un senso tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere, senza scorciatoie di mercato ma rispettando il cibo, la sua storia, le sue storie.
Il cibo è diventato per certi versi un lusso (lo raccontava bene Fabio Zago in un suo post sul Capitalismo Gastronomico) ma non è colpa di un panettone artigianale e di chi li crea (e senza i quali vivremmo in un regime omologato guidato da ciò che più ci gratifica e monetizza meglio, un cibo industriale che ancora oggi fa parte della nostra alimentazione quotidiana).
E il problema non sta neanche (completamente) nel consumatore che va a comprare un cibo industriale perché spesso non può permettersi altro ma sta nel fatto che il cibo (il buono e sano cibo) dovrebbe essere un diritto, non una scelta economica.
Questo è profondamente sbagliato ed è un problema sociale e culturale.
E in questo mondo riequilibrato ci sarà spazio per chi produrrà cibo al giusto valore e chi deciderà che varrà la pena ascoltare quella storia e pagarla il giusto prezzo.
[E per chiudere: Sardegna: dieci panettoni sardi da acquistare e gustare di Alessandra Guigoni ]